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Storia

Storia

Federico morì il 13 dicembre del 1250: sedici anni dopo il castello, trasformato in prigione, accoglieva i tre figli di Manfredi e, nel 1277, Corrado conte di Caserta. Successivamente fu feudo di Nicola Acciaiuoli, poi dei Del Balzo duchi di Andria e quindi di Consalvo di Cordova, il quale lo vendette nel 1552 a Fabrizio Colonna. Abbandonato dai suoi proprietari, per tre secoli servì di rifugio a briganti ed a pastori, finché venne acquistato, nel 1876, dal Governo italiano.

Fu parzialmente e non bene restaurato nel 1879; poi nel 1884, nel 1892, nel 1897. Ora vi si eseguono nuovi lavori con maggior senso di responsabilità. Il castello è a due piani, coperti da volte. Le murature sono composte di un conglomerato di pietra calcarea del luogo a scaglie ed a minuti frantumi con calce e sabbia di cava. La concezione planimetrica è basata sulla figura dell’ottagono che si ripete, oltre che nel corpo principale, nelle torri angolari, le quali, in origine, dovevano sopraelevarsi oltre due metri sulla linea di coronamento, giacché qualcuna di esse conserva alle sommità le tracce di locali, ora demoliti, che servivano di ricovero alle scolte.

Quando fu rifatto il lastrico della terrazza (1884) vennero distrutti molti elementi necessari ad una conoscenza precisa del sistema di raccolta e di incanalatura delle acque piovane: sono tuttavia ancora visibili alcuni condotti di discesa ricavati nelle murature, e ultimamente vennero ricollocati, ma a solo scopo decorativo, i doccioni di pietra (gargolle) che dovevano smaltire le prime acque destinate al lavaggio della copertura.

Castel del Monte fu ideato e costruito non a scopi militari, ma come luogo di dimora dell’imperatore e della sua corte durante le partite di caccia nelle ora non più boscose colline delle Murge. Le torri non hanno  quindi un precipuo compito difensivo, ma rispondono piuttosto a scopi pratici ed anche estetici. Quattro di esse contengono per tutta o per parte della loro altezza le scale di accesso al primo piano ed alla terrazza; le altre gabinetti scarsamente illuminati da feritoie e spesso, ricavate nello spessore dei muri, latrine che sono fra le più comode e le più razionali di quante siano giunte a noi, e non del solo periodo medievale.

Una grande cisterna era nel cortile; un’altra fuori del castello, ad uso dei servi e dei soldati che accampavano all’intorno. I serbatoi delle torri servivano ad alimentare forse la fontana o la vasca che si ritiene fosse nel mezzo della corte e le vaschette delle quali non resta traccia ma che troviamo in un altro edificio svevo: le torri della porta di Capua. Al piano terreno le stanze hanno quasi tutte, sotto il livello del pavimento, un foro aperto nella parete esterna e munito di un corto doccione per l’uscita delle acque che servivano alla lavatura del locale.

La cura nel provvedere ai vari servizi e soprattutto nel raccogliere e distribuire le acque, dimostra un grado di civiltà raffinata e richiama alla mente l’abilità e il gusto dei costruttori arabi della Sicilia che sapevano rendere la dimora comoda e piacevole.

L’interno del castello era di una magnificenza orientale che, attraverso gli avanzi ancora oggi esistenti e con lieve sforzo della fantasia ci riesce facile immaginare. Pavimenti a tarsie policrome comprese in campi e fasce che circondavano dischi di porfido e di verde antico; mensole di costoloni e chiavi di volte magistralmente scolpiti; mosaici nei timpani delle bifore; pareti rivestite di lastre di pietra corallina e di marmo greco fino all’imposta delle volte segnata da un’elegante cornice. Anche le robuste semicolonne e le svelte colonne a fascio, su cui poggiano le ogive, sono degli stessi materiali nobili.

Nessun avanzo rimane dei rivestimenti, ma dove e come fossero lo dimostrano le immorsature ai lati dei capitelli ed i piani ribassati delle pareti. Attorno alle mostre di pietra corallina delle porte di comunicazione fra le sale del primo piano, l’incasso più profondo disegna una superfice regolare il cui rivestimento aveva uno spesso maggiore, il che fa supporre l’esistenza di lastre con tarsie.

Le opere di finimento dovevano essere degne di tanta sontuosità. Per chiudere le porte vi erano imposte, forse di legni rari, che giravano attorno ad assi verticali, le cui estremità, protette da ghiere di ferro o di bronzo, penetravano nei fori ancora visibili di fianco alle soglie ed agli architravi. Nelle bifore e nella trifora, mancando gli architravi, i fori per i cardini vennero ricavati in caratteristiche decorazioni marmoree a foggia di grifi o di foglie di acqua. Tutte le chiusure venivano sprangate con travicelli e quelle delle porte erano anche munite, in alto, di catenaccioli.

Torno torno al cortile girava un ballatoio di legno sostenuto da mensole di pietra, sul quale si aprivano le porte finestre del piano nobile e che serviva per il disimpegno delle sale. Una sola mensola è rimasta, ed anch’essa mutila; le altre caddero o furono tagliate, ma la loro esistenza è dimostrata dalla sezione di frattura, la cui altezza è leggermente superiore a quella del corso di bozze al quale appartengono. Il castello probabilmente non fu mai coronato da merlatura, come qualche scrittore ha supposto; tuttavia esso era in grado di opporre pronta difesa ad un improvviso assalto esterno, con le robuste saracinesche e gli ostacoli preparati davanti agli ingressi e le feritoie per gli arcieri. Anche i passaggi interni e le loro chiusure furono ideati per contrastare il passo ad eventuali assalitori.

La tesi che il mirabile edificio sia opera, se non originale, direttamente influenzata dall’architettura francese e più specialmente da quella della Borgogna  della Sciampagna, ha trovato consenzienti quasi tutti gli storici moderni. Solo alcuni italiani – e fra essi, il più autorevole, Enrico Rocchi – hanno tentato di combatterla, scorgendo nel castello le espressioni non dubbie di un primo Rinascimento. In verità i segni dell’arte gotica, perfetti di forma e di esecuzione, sono così appariscenti ed insistenti da colpire l’attenzione dell’osservatore. però man mano che l’esame diventa più analitico e quindi più cauto, comincia a sorgere qualche dubbio sull’assoluta prevalenza della giovane corrente ultramontana.

Intanto, per quel che riguarda la parte costruttiva nel suo complesso, osserveremo che nessun castello sorto in Francia, avanti o contemporaneamente al nostro, può esser preso come termine di confronto. L’asserita purezza della struttura gotica non può che riferirsi al sistema delle volte ed alle scale a chiocciola delle torri; ma mentre per queste ultime nulla abbiamo da opporre, per quanto riguarda le volte con le loro ogive sostenute da semicolonne o da colonne ad elementi multipli crediamo non superfluo uno studio più accurato in merito.

Il Bertaux ha scritto che Castel del Monte rimane una meraviglia unica nell’arte del Medioevo. Questa unicità balza evidente dalla originalità della pianta e dalla fusione audace di varie correnti stilistiche, alle quali si aggiunsero genuine riesumazioni classiche e tentativi di nuove forme da quelle derivanti, per raggiungere un ideale d’arte al di là di ogni canone e di ogni regola. Svelti capitelli uncinati, basi con scozie profonde e plinti poligonali, cornici dalle tipiche sagomature, porte e finestre ad archi acuti vigorosamente modinati, volte cupuliformi su costoloni pensili, rappresentano tutta una fioritura di motivi francesi espressi con la sicurezza di chi parla il proprio linguaggio e non una favella straniera.

Accanto a questi, però, altri elementi rivelano la presenza di artisti di scuole diverse: le porte sul ballatoio della corte, le finestre del piano terreno, un’originale biforetta del primo piano, sono di tipo pugliese; i pochi avanzi dei pavimenti ricordano i maestri di Salerno e Ravello; i profili delle ogive sono ancora di carattere romanico. Ma ciò che interessa oltre questo accostamento armonico di stili svariati è il richiamo alle forme classiche già evidente nel portale maggiore, più franco e sicuro nell’opus reticulatum usato a scopo decorativo e nelle opere di scultura.

Un tale monumento, come non appartiene ad una scuola, non può essere considerato, a stretto rigore, concezione di un architetto. Ecco perché crediamo che come è caduto il nome di Filippo Chinard, così non possa sostenersi quello di Riccardo da Lentini. La tradizione che attribuisce l’opera a Federico imperatore è forse più vicina al vero di quanto si creda. Non alieno all’accogliere il nuovo stile che veniva dalla Francia, (come dimostra nella porta di Capua e nel castel Maniace); temperamento sensuale, vibrante al fascino delle arti e dei di Oriente, ma nello stesso tempo innamorato dell’antichità classica e ambizioso di far risorgere l’impero di Roma, egli sembra aver voluto riprodurre questa sua poliedrica anima assetata di bellezza e di gloria nel malioso castello che dall’alto delle Murge domina il litorale di Puglia.

Egli, l’ispiratore, chiamò forse maestri arabi dalla Sicilia per disegnare la pianta e provvedere al servizio idrico; poscia radunò i migliori artisti del suo regno tollerante ed aperto a tutte le forme della civiltà, dove lavoravano con eguale fortuna musulmani e bizantini, maestri di Puglia, di Lombardia, della Francia, dell’Asia Minore, e distribuì il lavoro lasciando a ciascuno piena libertà di espressione. Ma in una cosa si può riconoscere il suo diretto intervento; in quegli spenti classici da lui desiderati che rappresentano i primi germogli di un rinascimento, o anche i sottilissimi fili non mai spezzati di una tradizione che si manteneva tenace fra gli oscuri lapidici della costa dell’Adriatico.

Gino Chierici (1877-1961)

Archeologo, Sovrintendente ai Monumenti della Campania, dagli anni 1930/ 50; fu, inoltre, Conservatore Onorario della Certosa di Pavia e Medaglia d’Oro ai Benemeriti della Cultura e dell’Arte. Nel 1930, iniziò ricerche, scavi e restauri, nelle Basiliche di Cimitile, (dal 1933 al 1935), anno in cui venne trasferito a Milano. Notevole la direzione, a Napoli, del restauro della Chiesa Santa Maria Donnaregina Vecchia, condotta dal Chierici, negli anni dal 1928 al 1934.